
Dott. Corrado Randazzo
Adolescenza / Psicologia / Società
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Premessa
L’incremento della violenza sociale porta a considerare il tema dell’autoregolazione degli impulsi aggressivi con una certa urgenza. Le linee guida attuali, relativamente al sostegno psicologico e psichiatrico, sembrano limitarsi a definire la natura disfunzionale dei sentimenti di rabbia, inquadrandoli nelle varie categorie nosografiche, ed a pensare a forme di intervento finalizzate ad inibire o censurare il ricorso, della persona, alla condotta violenta.
Per quanto riguarda l’infanzia si stanno diffondendo modelli educativi orientati all’evitamento dei sentimenti oppositivi e di rabbia dei bambini, che si focalizzano su strategie di intervento educativo standardizzate e che si avvalgono sempre più frequentemente di supporti tecnologici, come le app per la prima infanzia, che di fatto finiscono per trascurare lo sviluppo soggettivo del bambino. Tali modelli infatti configurano una funzione genitoriale precostituita, che non si sviluppa gradualmente in risposta ai bisogni del bambino. La necessità di una riflessione più ampia nasce dal constatare che allo sviluppo di questi sistemi educativi sempre più moderni corrisponde una crescita esponenziale di condotte oppositive e violente riscontrate sia socialmente sia nella clinica in infanzia e adolescenza.
Nell’età dello sviluppo si registra inoltre un aumento di sintomatologie legate ad attacchi d’ansia, attacchi di panico, a crisi isteriche e disturbi dell’autoregolazione affettiva. Il considerare, in definitiva, l’aumento delle condotte aggressive in infanzia e in adolescenza come indice di sviluppo di potenziali funzionamenti patologici sembra decisamente una visione limitativa del problema. Forse è necessario ampliare la riflessione per cercare di comprendere il perché alla difesa dalla pulsione aggressiva, alla sua censura ed al divieto, corrisponda il proliferare di comportamenti antisociali e violenti.
Credo sia utile a tal proposito affrontare la riflessione a partire dal punto di vista winnicottiano che è fondato sull’impossibilità di eliminare l’impulso distruttivo nella relazione oggettuale in quanto tale impulso è necessario al processo maturativo dell’individuo.
La tendenza di un soggetto ad investire l’oggetto, influenzandone la natura, sembra scaturire da un bisogno pulsionale indispensabile per lo sviluppo maturativo e per la crescita della persona attraverso le varie fasi del ciclo di vita.
(E. Oliveira Dias, 2022)
È importante premettere che mentre per Freud la pulsione distruttiva rappresenta l’odio verso l’oggetto ed ha come fondamento la pulsione di morte, per Winnicott è indice di “separatezza” ed ha come fondamento un impulso vitale diretto al superamento ed all’interruzione di una fase dello sviluppo per accedere alla successiva.
Nel rapporto fusionale madre-bambino, ad esempio, al bisogno di unione reciproco si alternano spinte separative altrettanto reciproche, che consentono l’uscita dalla relazione fusionale e narcisistica, in cui la madre sente di essere il bambino ed il bambino sente di essere la madre, per accedere alla più evoluta fase “dell’Io sono”. Questo passaggio favorirà, nel bambino, lo sviluppo della “capacità di preoccuparsi” dell’oggetto sentito finalmente come altro da sé (Winnicott, 1981).
Questo lavoro si sviluppa attraverso l’approfondimento di tre immagini, che Winnicott ci propone e che ho riportato nei tre enunciati iniziali, ed a partire dalle domande che da essi scaturiscono:
-
- L’oggetto può sopravvivere alla pulsione distruttiva del soggetto?
- È possibile crescere senza distruggere una configurazione identitaria precedente?
- È possibile l’integrazione dell’odio rivolto all’oggetto senza averlo mai vissuto prima?
Violenza sociale – La tendenza distruttiva nei bambini
Vedendo giocare i bambini è possibile notare oltre la natura progettuale e costruttiva, che dà vita al gioco, una simultanea (a volte latente altre manifesta) tendenza a distruggere il gioco stesso. Queste peculiarità del gioco infantile suscitano spesso la perplessità nei genitori, che interpretano la distruttività, espressa tanto nel gioco quanto nei comportamenti, come un’incapacità del bambino. L’impulso distruttivo nei bambini si manifesta esplicitamente attraverso movimenti aggressivi rivolti ai giochi come la tendenza a smontare, a rompere i giochi, a perderli oppure implicitamente, attraverso movimenti separativi come l’interruzione, la separazione, l’abbandono o l’inibizione ed il ritiro dal gioco.
La rottura del giocattolo o l’interruzione del gioco rappresenta, per i bambini, un rivoluzionarsi di una precedente condizione conosciuta e quindi familiare, per ritrovarsi in una situazione nuova, sconosciuta. Un cambiamento da intendersi come un salto nel vuoto, che libera nel bambino uno stato di angoscia e che apre il tema del dopo. Il bambino separandosi dal gioco sperimenta la sopravvivenza dell’oggetto, la possibilità cioè che le sue relazioni d’amore possano continuare anche dopo i suoi attacchi distruttivi.
Ricordiamo in tal senso il “gioco del rocchetto” del bambino in Freud (Freud S., 1920) e la “situazione prefissata” in Winnicott (Winnicott D., 1941). In entrambi i casi i bambini si separano dall’oggetto con cui stanno giocando, se vogliamo anche aggressivamente, in un caso lanciando via un rocchetto che potrebbe perdersi e non tornare più e nel secondo caso lasciando cadere in terra l’abbassalingua con il rischio che possa rompersi. È possibile interpretare entrambi i movimenti separativi come un’azione aggressiva rivolta all’oggetto, paragonabile al tentativo del bambino, durante l’allattamento, di “inglobare il seno o di divorarlo” (M. Klein, 2006). È importante prendere atto di come queste tre forme d’investimentio oggettuale manifestino l’imprescindibilità della pulsione aggressiva nello sviluppo del bambino.
Freud definì, la spinta dell’individuo ad aggredire l’oggetto, “pulsione cannibalica di appropriazione” finalizzata ad inglobare l’oggetto al fine di acquisirne la forza (Freud S. 1929). Il ripresentarsi del giocattolo (il ritorno del rocchetto, dell’abbassalingua e del seno), il loro essere ancora nel campo relazionale del bambino, o nei casi migliori la sua riparazione, restituisce al bambino l’idea di “costanza dell’oggetto” (Winnicott D., 1971), la sensazione che è possibile continuare a giocare nonostante la propria rabbia. Per effetto della sopravvivenza dell’oggetto il bambino può concepire la legittimità del suo impulso distruttivo senza sentirsi cattivo, e può tollerare di conseguenza la separatezza, il lutto per la perdita dell’oggetto, senza sentirsi rifiutato e abbandonato.
È come se il bambino dicesse all’oggetto “io ti ho distrutto ma tu sei sopravvissuto […] per questo hai valore per me” […] “mentre ti amo, ti distruggo continuamente nella mia fantasia” (Fabozzi P. p 245).
La risposta che l’ambiente rivolge al bambino
“Trascorre il tempo a cercare inconsciamente i suoi genitori […] – dice Winnicott di un bambino di nove anni inviato in un istituto per bambini evacuati – a causa delle sue ripetute fughe, attraverso le quali salvaguardava inconsciamente l’interno della sua famiglia e proteggeva la madre dagli attacchi e allo stesso tempo cercava di salvarsi da un mondo interno pieno di persecutori”.
Questo bambino viene preso in affido dallo stesso Winnicott.
Avviene dopo un certo tempo che nel bambino nasce la speranza – continua l’autore – ed egli comincia a mettere alla prova l’ambiente che ha trovato ed a cercare la conferma che i suoi genitori adottivi sono capaci di odiare oggettivamente. Sembra quasi che egli possa credere di essere amato solo dopo esser stato odiato.
(Winnicott D., 1947, p.240)
Winnicott sottolinea un ulteriore cambio di rotta rispetto alla psicoanalisi freudiana, che considerava l’odio controtransferale come un effetto del transfert negativo e quindi come un ostacolo alla cura. Per Winnicott il controtransfert è invece uno strumento che consente di riconoscere, contenendole, le parti negate e più dolorose del paziente e di aiutarlo nel processo di elaborazione. Allo stesso modo i sentimenti controtransferali suscitati nei genitori dai figli, rappresentano la richiesta di comprensione e di riconoscimento che il figlio rivolge al genitore. Va ridetto che tali sentimenti si esprimono attraverso attacchi distruttivi che possono manifestarsi tanto attraverso condotte aggressive e violente quanto sotto forma di rifiuto o di ritiro e inibizione.
Il bambino di conseguenza può riconoscere le proprie paure e quindi le proprie fragilità solo attraverso il vissuto suscitato nel genitore. Quando Winnicott parla nel suo articolo sulla “Crudeltà primitiva” di “motilità infantile”, sottolinea come la sola motilità del bambino rivolta al corpo della madre, sia da intendersi come un atto aggressivo in termini di limitazione della libertà della madre, che se non altro deve tollerare il peso di quella motilità (Fabozzi P. 2006). Winnicott descrive nella parte finale del saggio “L’odio nel controtransfert” un elenco di ben 17 motivi per cui una madre può odiare il bambino prima che questo abbia potuto odiare lei (per conseguenza della sua mancanza).
L’inevitabile risposta del genitore ai movimenti aggressivi dei figli o al peso della responsabilità dei figli, è una risposta di sofferenza, a volte di sforzo eccessivo, a volte di delusione o scoraggiamento, una risposta rifiutante e quindi separativa. In questi momenti di dissonanza emotiva, il bambino non si sente in sintonia con il genitore ed interpreta inconsciamente queste differenze come momenti persecutori, sentendosi di conseguenza rifiutato ed odiato. Attraverso, quindi, la risposta di sofferenza e di rifiuto da parte della funzione genitoriale, il bambino riconosce come in un rispecchiamento, la propria sofferenza e il proprio senso di rabbia vissuto nel rapporto con il genitore.
Il bambino quindi solo attraverso questo scambio può riconoscere quel sentimento di rabbia che ha rivolto all’oggetto quando questo è stato cattivo con lui per effetto della sua mancanza. Il contenimento prima e il rispecchiamento poi, dell’odio, tanto del bambino quanto del genitore, favorirà il processo di integrazione di questo vissuto avviando il concepimento delle pulsioni separative come momenti non distruttivi della relazione con i genitori. È come se il bambino dicesse al genitore:
Adesso rivedo la mia rabbia nella tua e tutto ciò che provo mi sembra reale.
Di contro il non riconoscimento di un vissuto restituisce al bambino un vissuto di estraneità che si può tradurre con il termine “angosce egoaliene”. Questi vissuti determinano la proiezione all’esterno di quelle parti di sé egoaliene per effetto dell’illusione di potersene liberare. Nello sviluppo funzionale quindi, che può avvenire solo all’interno di un ambiente facilitante, che consenta il riconoscimento delle parti di sé proiettate nell’altro, quelle stesse parti possono essere integrate.
È per questo che:
Solo dopo aver sentito di essere stato odiato il bambino può sentirsi amato.
(Winnicott D., 1947)
All’interno, invece, di un ambiente non facilitante ma rifiutante nel quale l’odio nella ralazione non può essere tollerato, questo vissuto diviene oggetto di meccanismi espulsivi che vanno dalla proiezione alla scissione. L’odio impensabile e quindi inimmaginabile, che non può essere sentito, sognato e che non è raffigurabile attraverso immagini, è vissuto sotto forma di angoscia e trova necessariamente manifestazione nell’agito, l’espressione nella concretezza. Dobbiamo chiederci alla luce di questo se la nuova genitorialità sia oggi disposta ad odiare il figlio, (nel senso di accettarne la separateza, un certo grado di inconoscibilità) intendendo per odio la capacità del genitore di rinunciare al figlio ideale separandosene e di accogliere la nuova identità del figlio reale.
Questa capacità rappresenta il precedente che consentirà poi al figlio di riconoscere il proprio odio verso un genitore diverso dal genitore idealizzato, che può essere amato ed odiato allo stesso tempo. Dobbiamio chiederci quindi se la nuova genitorialità sia disposta a rinunciare all’identificazione col figlio ed alla proiezione su di esso del proprio narcisismo (Freud S. 1913). Sembra essere infatti la difficoltà a disidentificarsi dal figlio a mantenere un livello narcisistico nei genitori che non consente l’elaborazione dell’odio/separatezza dal figlio.
La nuova genitorialità non s’identifica più col genitore rappresentato dall’insegnante, l’astruttore, il coach, l’esponente delle forze dell’ordine, dallo Stato. La nuova genitorialità sembra vestire invece i panni del figlio, dell’allievo, del ragazzino che svolge la propria partita della domenica, di chi si ribella alle forze dell’ordine, di chi è contro lo Stato ed il sistema di regole… Questa alleanza narcisistica resiste e confligge con quell’odio da cui non si può prescindere, che quando sarà vissuto tanto dal figlio quanto dal genitore, sarà agito poiché non pensato e sentito quindi come angoscia (Bollas C., 2018).
L’agito è da intendersi pertanto come espressione fisica dell’odio.
Violenza sociale – La pulsione distruttiva in adolescenza
Va detto che in infanzia la pulsione distruttiva si rivolge sempre alla sfera genitoriale oppure all’ambiente intrafamiliare. Ciò dipende dal fatto che in infanzia il bambino si identifica con il genitore, individuando, in altre parole, il proprio sé nel corpo dei genitori. È per questo che le paure dei bambini riguardano principalmente la sopravvivenza del genitore. In adolescenza invece il sé si identifica e si colloca sul corpo ed è per questo che per l’adolescente le angosce riguardano principalmente e inizialmente la propria salute e la propria immagine corporea.
In entrambe le fasi dello sviluppo, tuttavia, osserviamo l’attacco aggressivo all’oggetto Sé che ha lo scopo di superarne i limiti. Questa tendenza sembra evidenziare un atteggiamento che potrebbe sembrare oppositivo/provocatorio ma in realtà esprime un bisogno di ampliare il proprio mondo relazionale e le proprie competenze. L’adolescente sperimenta la capacità di vivere anche al di là del perimetro delineato dal mondo intrafamiliare, ma potrà farlo solo acquisendo un certo grado di separatezza dai genitori. Gli aspetti distruttivi si rivolgono pertanto al mondo esterno, extrafamiliare, al mondo degli estranei.
Il primo passaggio importante dell’adolescenza che rappresenta il primo incontro con l’estraneo consiste nell’integrazione del corpo sessuato in quanto il passaggio pubertario conferisce all’adolescente un’immagine di sé nuova, estranea (Laufer E. 1986). Il riconoscimento della propria sessualità rappresenta, per questo motivo, il primo impatto con un mondo sentito inizialmente come sconosciuto. I confini di un Io che prima era identificato nel mondo genitoriale ed intrafamiliare, adesso sono i confini da identificare nel proprio corpo. Il primo momento critico in adolescenza consiste quindi nell’integrazione di quel senso di estraneità suscitato dall’emergente nuova sensorialità post-pubertaria e nel riconoscimento quindi di un sé definito dalla corporeità.
Posto quindi, per quanto detto sopra, che l’integrazione in generale si fondi sulla separatezza dall’oggetto e sul rispecchiamento attraverso cui l’oggetto restituisce al soggetto un’immagine di Sé, possiamo capire perché affinchè l’adolescente possa accettare la propria identità sia necessario avere acquisito un certo grado di separatezza dal genitore. Anche in adolescenza sarà quindi importante tollerare, tanto per i genitori che per i figli, i sentimenti di rabbia, di ribellione, di rifiuto reciproco, di allontanamento e riavvicinamento. Questa realtà rivela un’imprescindibile ambivalenza per effetto da un lato del bisogno dell’adolescente di sognare un’immagine di sé ideale, inattaccabile ed invincibile, che possa fare a meno dell’aiuto del genitore, e dall’altro del bisogno di ricongiungersi ad esso, per un senso di colpa latente.
L’odio in adolescenza si rivolge al corpo, adesso sessuato, colpevole di avere compromesso il legame d’amore con i genitori e di aver compromesso il senso di onnipotenza infantile. L’adolescente se da un lato lotta per la conquista della propria autonomia, dall’altro teme per le conseguenze dell’essere autonomo dopo la separazione. L’angoscia adolescenziale si condensa nel sentimento di perdita di quell’amore genitoriale totale, che includeva anche la sessualità del bambino. Adesso l’adolescente dovrà investire il mondo extrafamiliare e ad esso dovrà rivolgere la richiesta di contenimento. I movimenti distruttivi in adolescenza saranno rivolti pertanto tanto al proprio corpo quanto ad oggetti identificati nel mondo extrafamiliare come oggetti che curano (corsivo mio), e vissuti come prolungamenti narcisistici.
Sembra essere determinante tuttavia, in relazione al tema affrontato in questo lavoro, che questi oggetti siano costituiti da un corpo sensoriale, un corpo sensiente che cambia in funzione di percezioni soggettive. Quando la relazione si fonda su un livello emotivo e corporeo allo stesso tempo, in cui avviene un incontro tra i sentimenti del bambino e le risposte emotive e corpopree allo stesso tempo da parte dei genitori, il legame può stabilirsi a livelli più profondi. Quando la richiesta di contenimento viene affidata invece ad oggetti inanimati, che assolvono alla funzione materna, osserviamo all’origine di relazioni oggettuali in cui il soddisfacimento proviene dal rapporto, seppur emotivo, a-corporeo. La relazione anaffettiva stabilita con oggetti non compassionevoli (Thanopulos S., 2020) genera rapporti fondati sull’illusione che l’angoscia possa essere contenuta attraverso il possesso e dal controllo di un oggetto concreto anche senza la comunicazione emotiva.
Lo sviluppo tecnologico e l’esplosione del mondo dei social e delle relazioni on-line, sembra consentire all’adolescente di alimentare quell’illusione attraverso l’estensione della propria identità per appoggio di parti del sé su oggetti materiali come strumenti tecnologici, smartphone, playstation, per finire all’immagine social. In questi casi la costituzione del Sé dell’adolescente prima e dell’adulto poi non è frutto di scambi emotivi e questo corrisponde probabilmente ad un impoverimento del mondo interno del soggetto che non riceve mai risposte emotive dall’ambiente. Forse la crescente crisi delle capacità empatiche nelle relazioni, dipende proprio da una difficoltà a connettersi con i sentimenti dell’altro.
La non integrazione di vissuti non pensabili e quindi non comunicabili è testimoniata dall’impossibilità di questi adolescenti a tollerare sentimenti di perdita e di separazioni dall’oggetto amato intendendo con il termine amato un oggetto dal quale non ci si può separare. La separazione dall’oggetto è vissuta da questi adolescenti come separazione da una parte corporea del sé. Queste parti di sé identificate nell’oggetto inanimato assumono la valenza di prolungamenti narcisistici, per cui la separazione da esse è avvertita come perdita di una parte del proprio corpo, una sensazione impossibile da tollerare. In questi casi, l’agito violento può essere rivolto all’oggetto, sotto le varie forme di autolesionismo (aggressività autodiretta), oppure a chi minaccia questo legame, sotto forma di condotte violente (aggressività eterodiretta).
In definitiva mentre la realtà comunica, implicitamente ed in maniera latente, la limitatezza dell’esperienza e la fallibilità del corpo sessuato, il mondo virtuale implicitamente e latentemente propone l’opposto: l’illimitatezza della esperienza, a causa dell’abbattimento del concetto di tempo; l’illusione di poter far fronte alle trasformazioni corporee, attraverso le app che modificano l’aspetto fisico; l’illusione di poter vivere un sentimento provocandolo volontariamente, attraverso lo sviluppo di simulatori virtuali grazie ai quali è possibile vivere esperienze interattive, la serie di successo Black Mirror ne è un esempio.
L’interiorizzazione dei confini dell’oggetto, e di conseguenza il limite della relazione, configurerebbe invece i confini del sé favorendo il processo di simbolizzazione del conflitto. Di contro l’impossibilità di interiorizzare il limite non consente la possibilità di simbolizzare il conflitto che sfocia pertanto nella concretezza. L’attacco distruttivo concreto sembra avere ricadute che spesso si manifestano a livello sociale ed è quindi disfunzionale alla sopravvivenza dell’oggetto ed è pertanto indice di funzionamenti patologici.
Violenza sociale – La pulsione distruttiva in età adulta
Anche nelle relazioni adulte più mature l’impulso distruttivo è costantemente presente. L’adulto, che si trovi o meno in una relazione di coppia, si trova sempre a dover vivere un conflitto tra il bisogno di ritrovare quella relazione d’amore perduta con il primo oggetto d’amore (la madre) ed il sentimento costante di affermare e mantenere la propria autonomia e quindi l’indipendenza da esso. La conflittualità di coppia sembra per tanto un aspetto naturale, in quanto insito nella relazione oggettuale, e che quindi non preclude l’avvio di una relazione potenzialmente stabile e duratura.
Quando tale conflitto non è presente significa che uno dei due movimenti psichici è predominante: o prevale il bisogno di autonomia, e quindi la persona si difende da legame d’amore, o prevale il bisogno di dipendenza e la persona si attesta su livelli narcisistici nei quali l’oggetto d’amore è inseparabile e vissuto come parte di sé. Questi ultimi sono rapporti caratterizzati dal non riconoscimento dell’alterità del partner, in cui la distanza, che può anche configurarsi come una distanza dovuta, un bisogno di spazio, la non condivisione sempre di obbiettivi comuni, è vissuta come minaccia alla stabilità e l’equilibrio dell’altro.
Nelle relazioni su base narcisistica il partner funge da sostegno imprescindibile o, per meglio dire, da prolungamento narcisistico (mentre in adolescenza il prolungamento narcisistico è rappresentato dal legame con oggetti che hanno lo scopo di migliorare il corpo, in età adulta il prolungamento narcisistico è rappresentato dal legame con un’altra persona). Quando non è tollerabile una giusta distanza tra i partner, che implica un grado di accettazione della non completa conoscibilità dell’altro, possono alimentarsi angosce abbandoniche e di isolamento, tipiche di rapporti narcisistici.
Per questo motivo, in questi tipi di relazione, è impossibile per l’uno tollerare la libertà dell’altro ed è necessario tenerlo sempre sotto controllo. Tali angosce, se diventano insostenibili possono culminare nella fantasia di distruggere l’oggetto, impedendogli cosi di distanziarsi e di generare quel senso di vuoto insostenibile. A questi funzionamenti andrebbero riferiti i delitti passionali nei quali la fine di una relazione, provocata dall’allontanamento di uno dei due partner, genera un vissuto di perdita di una parte di sé.
La violenza nei confronti del partner che non si lascia controllare, sarebbe quindi frutto di un’angoscia che si estingue attraverso l’illusione che all’eliminazione dell’oggetto corrisponderebbe l’eliminazione della sofferenza. In questi rapporti disfunzionali è possibile individuare l’impossibilità di accedere alla posizione depressiva: il soggetto non tollera la perdita dell’oggetto. Si tratta di configurazioni anti-edipiche che non consentono l’accettazione del divieto, il dover tollerare una rinuncia pulsionale.
Non tutti i desideri possono essere realizzati a causa della libertà dell’oggetto di rifiutare la relazione.
L’oggetto benché interiorizzato in una posizione narcisistica può svolgere una funzione di supporto, riempiendo un vuoto, ma può anche svolgere una funzione destabilizzante, che disturba costantemente la ricerca di equilibrio e di adattamento dell’individuo all’ambiente. Si parla in questi casi di rapporti psicoticizzanti. Nel rapporto psicoticizzante l’equilibrio è distorto dalle qualità ambivalenti dell’oggetto. In queste relazioni il soggetto accetta come costitutivo del proprio Sé un oggetto ambivalente, che lo ama e al contempo odia (Searles H., 1974). Ne risultano funzionamenti patologici in quanto i sentimenti di odio diventano un requisito imprescindibile della relazione.
Fanno parte di questi funzionamenti condotte distruttive volte a destabilizzare l’altro e condotte autodistruttive basate sull’accertare relazioni destabilizzanti rivolte al sé. Le condotte distruttive possono esprimersi attraverso atti di violenza fisica, verbale o psicologica come nel razzismo, nel bullismo ma anche nelle condotte violente autodirette come nella tossicodipendenza, nell’anoressia. L’oggetto deve continuamente essere attaccato e distrutto per effetto della coazione a ripetere della relazione oggettuale interiorizzata.
In entrambe le condizioni possono strutturarsi disturbi di personalità che possono anche restare latenti. Anche nelle relazioni in età adulta andrebbero considerati i legami stabiliti con un oggetto virtuale. Ricordando “Her”, film interpretato da Jaquin Phenix, in cui il rapporto d’amore stabilito con un’intelligenza artificiale, conforta il senso di isolamento vissuto dal protagonista, difendendolo dalla paura di essere lasciato ma allo stesso tempo non restituendo un senso di esclusività e di unicità di cui un individuo ha bisogno per individuarsi e per avviare la costituzione della propria identità.
Ciò che vorrei sottolineare è il fatto che è la reazione emotiva dell’oggetto a conferire nel soggetto quella pienezza che costituisce il senso di sé. È quella restituzione a favorire lo sviluppo identitario. Nella relazione virtuali come in “Her”, invece, in cui la risposta dell’oggetto è fondata su un algoritmo, avviene una restituzione non empatica che pregiudica la funzione di rispecchiamento nell’altro e alimenta un mondo interno che si dirige verso la costituzione di un’identità che non trova un senso di pace e di conforto interiore.
L’investimento oggettuale
Credo sia necessario evidenziare che nella relazione oggettuale l’investimento non è unidirezionale ma bidirezionale: il soggetto investe l’oggetto e l’oggetto investe il soggetto. Il bambino investe il genitore con i suoi bisogni ma anche il genitore investe il figlio con le sue aspettative, per effetto di un bisogno narcisistico di base indispensabile soprattutto nelle fasi iniziali dello sviluppo. Da questo punto di vista è possibile riflettere sul fatto che il processo maturativo dipenda dalle capacità separative tanto del genitore quanto dei figli.
La disponibilità a separarsi dipende dalla tollerabilità di un certo grado di dolore o di frustrazione che si avverte in tutti i momenti di passaggio da una fase all’altra dello sviluppo: durante lo svezzamento, quando si interrompe il rapporto fusionale madre-bambino, durante la pubertà quando l’irruzione del corpo sessuato attacca e trasforma il corpo del bambino sessualizzandolo e condizionando la sua richiesta di accudimento rivolta ai genitori, nella ricerca di una nuova identità dell’adolescente, che infrange l’ideale di onnipotenza infantile, in età adulta quando, nei funzionamenti sani, vengono abbandonati o sublimati i sogni adolescenziali e gli ideali di onnipotenza, interiorizzando il limite nella relazione e si manifesta un livello maturativo che consenta la rinuncia pulsionale.
Investire, trasformare, interrompere, infrangere, evolvere ma anche abbandonare e sublimare sono termini che esprimono, nella reciprocità degli investimenti, la distruzione di una condizione relazionale familiare per accedere ad una nuova configurazione. Si deduce che il passaggio tra le fasi del ciclo di vita sia costellato e favorito dal susseguirsi di cambiamenti distruttivi di una condizione precedente, che potremmo definire “Cambiamenti catastrofici” per la realtà vissuta dal soggetto (Bion W., 1981). Tali cambiamenti, costruttivi per lo sviluppo soggettivo, possono avvenire solo all’interno di un ambiente facilitante, che non impedisca ma consenta l’investimento distruttivo rivolto all’oggetto.
Il riconoscimento dell’imprescindibilità della pulsione distruttiva nelle relazioni è dunque il primo focus di questo lavoro, un filo conduttore da pensare come movimento vitale e non disfunzionale, riferibile a tutte le relazioni interpersonali, indipendentemente dall’età, dalla cultura di appartenenza e soprattutto dalle condizioni di salute psichica. La pulsione distruttiva, per questo motivo, non è sempre indice di un funzionamento patologico ma, se non elaborata e tradotta al livello simbolico, può evolversi in condotte disfunzionali caratterizzate da forme di aggressività e violenza autodirette ed eterodirette. L’imprescindibilità della pulsione aggressiva è dovuta in definitiva al fatto che tale dinamica rientra nella “pulsione orale” per cui aggredire, inglobare e possedere significa alimentarsi.
La restituzione
Il secondo punto da considerare riguarda le modalità attraverso le quali dovrebbe avvenire quell’elaborazione degli impulsi distruttivi per consentire il passaggio dal livello concreto della relazione oggettuale, quello corporeo, al piano simbolico e di conseguenza il ridimensionamento dell’agito. Il rapporto psicoanalitico rappresenta un modello relazionale, che s’ispira alla funzione materna, che consente l’avviarsi di una relazione in cui il vissuto del soggetto possa essere accolto prima e trasformato poi, ed in cui l’odio nella relazione sia ammissibile. (Winnicott D., 1947).
Nel rapporto psicoanalitico l’oggetto, rappresentato dall’analista, non si difende dalla rabbia del paziente, dai suoi sentimenti di odio nel transfert ma si pre-occupa di quei sentimenti distruttivi e così facendo concede ad essi uno spazio per essere pensati (1). Allo stesso modo, la risposta della madre sufficientemente buona all’investimento del bambino, dovrebbe essere quella di accoglierlo e riconoscerlo pre-occupandosi. Le quote di aggressività dell’investimento oggettuale metteranno alla prova la capacità di contenere e tollerare della funzione materna e se questa dovesse essere sufficientemente buona, rivelerà al bambino la natura non distruttiva dei propri vissuti emotivi e che la loro esistenza non compromette la relazione d’amore madre-bambino.
La capacità di integrare, affetti distruttivi angoscianti o depersonalizzanti, da questo punto di vista, può avere luogo a partire dalla disponibilità della funzione materna e dalla sua qualità di contenimento. Bleger introduce il concetto di “depositario”, un luogo che funge da estensione della mente e che sia in grado di accogliere elementi indifferenziati in “Posizione gliscocarica”, posizione antecedente alle kleiniane posizioni schizoparanoide e depressiva nella quale gli oggetti non sono ancora definibili e riconoscibili (Bleger J., 1967). Si deduce che la funzione di contenere del depositario prima e quella della funzione materna di rispondere all’investimento del soggetto dopo, consentano insieme la trasformazione del vissuto soggettivo.
Dobbiamo pensare al depopsitario come mente della madre, che accoglie e comprende il vissuto del bambino consentendogli di sentire di esistere. Siamo agli albori dello sviluppo di una nuova identità definibile attraverso la funzione di rispecchiamento, che favorisce la raffigurabilità del mondo interno del bambino e che consente l’interpretazione del senso dei suoi investimenti. Il depositario è rappresentativo quindi di un ambiente primario, un’area transizionale che sta tra il soggetto e l’oggetto; la funzione materna invece è rappresentata dalla capacità dell’oggetto di dare senso agli elementi che il soggetto colloca nell’area transizionale traducendoli in immaginio e in pensieri.
I vissuti riversati da un soggetto nella relazione, come impulsi distruttivi, quando danno vita a pensieri indicano un’avvenuta integrazione dell’odio. Quando invece tali vissuti non sono pensabili, e quindi inconcepibili per l’oggetto, persistono nel soggetto come elementi indifferenziati e quindi impensabili. Questi vissuti non integrabili sono oggetto di scissione. Le condotte impulsive e violente quindi sono riferibili alla non concepibilità dell’odio nella relazione.
Corporeità
Ritengo utile in terzo luogo sottolineare l’importanza della corporeità dell’oggetto. Winnicott afferma che l’integrazione della psiche nel soma dipende dal contatto del corpo della madre con il corpo del bambino nella relazione primaria e dalla capacità di tenerlo e maneggiarlo (Winnicott D., 1974). Winnicott sostiene quindi che l’immagine che il bambino ha di sé e del proprio mondo interno sia generata dal contatto col corpo della madre e dalle rappresentazioni che la sua mente genera a partire da stimoli sensoriali.
Da qui si evince che il processo di integrazione tra psiche e soma sia generato dall’incontro e dal contatto del corpo del bambino con il corpo del genitore e dalle immagini che questo incontro genera nella mente del bambino. Bick nel suo lavoro descrive come la prima esperienza dell’io, che conferisce al bambino la sensazione dei propri confini, scaturisce dal contatto della madre con la pelle del bambino e che quei confini corrispondono ai confini dell’Io. (Bick E., 1984).
Gli studi sulla psicosi ci mostrano invece le conseguenze che scaturiscono dall’impossibilità di sentire il contatto con il corpo dell’oggetto nella relazione primaria. In questi casi la mente crea immagini allucinandole allo scopo di autocontenersi. In assenza dell’oggetto il soggetto tende ad iperattivarsi al fine di colmare quel vuoto. Correale definisce questo momento come ipersensorialità (A.Correale, 2021).
I futuri studi probabilmente ci daranno nuovi risultati e faranno luce in merito alle conseguenze sullo sviluppo di relazioni oggettuali caratterizzate dal sempre più precario investimento del soggetto su un oggetto fisico, e quindi corporeo, e l’aumento dei rapporti tra il bambino, l’adolescente o l’adulto con un oggetto virtuale, che non ha corpo. Sarà importante osservare quali restituzioni e riconoscimenti provengano a partire da un depositario virtuale, da un’immagine che certamente genera sensazioni e sentimenti ma che è priva di un corpo fisico.
Quale integrazione psiche-soma è possibile se il depositario non è animato da sensazioni che scaturiscono dal contatto fisico? Chi maneggerà il corpo del bambino suscitando in esso sensazioni alle quali corrispondernno emozioni? Quali vissuti restituisce al soggetto un depositario che non prova emozioni?
A partire dalle cronache giornaliere, oltre che dal lavoro clinico, e dai risvolti in termini di aumento della violenza sociale, emerge una crisi della funzione contenitiva ed elaborativa del sentimento di odio e un aumento degli agiti aggressivi che ne scaturiscono. Sembra che l’interazione dell’individuo con l’oggetto virtuale non favorisca lo sviluppo della capacità di configurare immagini contenitive.
Piera Aulagner definisce questa immagine “Pittogramma”, un’immagine che testimonia la funzione di contenimento. (Aulagner P., 1994). Il Pittogramma è un’immagine frutto di un’elaborazione che ha trasformato l’angoscia nel suo nome, e che in quanto immagine è costituita dai suoi limiti e rappresenta una parte del mondo interno. Ma soprattutto è un’immagine che ha profondità in quanto è frutto di uno scambio emotivo tra soggetto ed oggetto.
L’immagine di sé generata da scambi interpersonali virtuali è invece un’immagine piatta (corsivo mio) che non scaturisce da uno scambio sensoriale che si traduca in vissuti emotivi, che non è veicolata pertanto dal corpo ma da uno scambio a-corporeo, che comunque attiva un livello emotivo. Si tratta di un’immagine che non consente l’interiorizzazione del senso di limite e che preclude gli accessi alla posizione depressiva.
La relazione virtuale, a causa della sua incapacità di configurare il concetto di limite, tanto del corpo quanto della relazione, sembra facilitare il senso di onnipotenza, allontanando l’individuo dal concepire un sano senso di finitezza e di fallibilità. L’esperienza che scaturisce dalla relazione virtuale consente infatti di superare i limiti corporei attraverso il video gioco, il profilo social, le app che consentono di compiere azioni che non rientrano nelle nostre abilità, generando strutture di personalità fondate sul falso sé (Winnicott D., 1970).
La serie tv “Black Mirror” rappresenta un’apprezzabile visione rivolta ad un futuro in cui l’esperienza vissuta dipende da un’intelligenza artificiale che funge da io ausiliario. La componente virtuale, suggerisce la serie tv, consente al corpo di superare i propri limiti avviandolo verso un senso di onnipotenza che però, è doveroso aggiungere, non lo aiuterà a formarsi per tollerare l’esperienza della perdita e della fallibilità.
Conclusioni
La tendenza a distruggere nella relazione si esprime per tutto il corso della vita di un individuo attraverso investimenti oggettuali finalizzati a inglobare l’oggetto (Freud S., 1929), a salvarlo (Amati Sas S., 2020) ma anche costantemente per l’intento di distruggerlo (Winnicott D., 1947). Sostanzialmente si delineano due spinte pulsionali principali, una tende all’unione, la seconda alla separazione: la pulsione d’amore, che ha come fine l’identificazione, e la pulsione di odio, che tende alla differenziazione. Entrambe le spinte relazionali, sono insite nella natura costituzionale dell’individuo e ne influenzano le azioni per tutto il corso della sua vita.
In altre parole, l’individuo non potrà mai smettere di cercare l’oggetto perduto, cioè la relazione primaria interiorizzata, e non smetterà mai di cercare di affermare la propria indipendenza da esso, cercando continuamente di distruggerlo. Posta l’imprescindibilità quindi, degli aspetti distruttivi nella relazione, emerge la necessità di comprendere quando questi diventano costruttivi per l’individuo e per le persone con cui è in relazione, e quando invece sono distruttivi per sé e per gli altri. È necessario per questo distinguere una distruttività che ha lo scopo di tollerare l’alterità dell’oggetto ed una distruttività che la nega, che trae origine dal sentimento narcisistico.
Nel primo caso la persona riconosce ed accetta la diversità considerandola, negli sviluppi più maturi, un’opportunità di sviluppo che possa arricchire quelle parti di sé più deboli. Tale forma di distruttività pertanto, va considerata una forma di differenziazione che mira all’individuazione, costruttiva di una nuova identità. Questi rapporti favoriscono l’integrazione e l’incontro con l’altro da sé come una opportunità di crescita e di miglioramento. Nel secondo caso, la persona si sente minacciata dall’altro da sé, colpevole di provocare la sofferenza a causa della sua posizione asimmetrica, che non consente un rispecchiamento.
Tale forma di distruttività ha l’intento quindi di eliminare la sofferenza attraverso il rifiuto della distanza e della alterità dell’oggetto. Questo presupposto è all’origine delle questioni raziali, del bullismo, del parricidio, del femminicidio, dell’infanticidio e di ogni altra forma di violenza fondata sulle angosce provocate dal senso di alterità dell’altro da sé, il “diverso da me”. Sembra necessario accettare la distanza dell’altro, la sua diversità come fonte di ricchezza. Sembra necessario uscire da una dimensione relazionale fondata sulla similarità per accedere a forme di legame fondate sulla complementarietà.
Dobbiamo chiederci oggi, quale integrazione sia possibile all’interno di relazioni stabilite per similarità, in cui il legame è possibile solo se l’altro è uguale a sé. Ma soprattutto dobbiamo chiederci quale risposta può restituire un oggetto che oltre ad essere altro da sé è anche inanimato, non produce cioè risposte controtransferali. Pensiamo al corpo della madre che tiene in braccio il corpo del bambino, al corpo dell’adolescente che contiene l’Io e gli da forma restituendogli l’idea di confine, pensiamo alla relazione di coppia che consente a un partner di essere contenuto dall’altro. Pensiamo anche alla stanza di analisi che tiene in sè i pensieri e li contiene.
Pensiamo di conseguenza alle app della prima infanzia nella relazione primaria che sostituiscono il corpo del genitore e si avviano a tenere insieme il corpo del bambino; pensiamo al profilo social in adolescenza che si sostituisce al corpo dell’adolescente nel tentativo di definire, rappresentare e dare forma all’Io; pensiamo alla relazione di coppia nella quale la relazione d’amore è sempre più identificata con un immagine di sé che si esprime nel profilo social, con la quale il corpo sessuato non potrà alla lunga competere. E infine è importante riflettere sul sostegno psicologico che si svolge on-line, a prescindere dalla presenza fisica dell’analista e del paziente, a prescindere dalle mura che trattengono le voci dell’analista e del paziente, a prescindere dagli odori, a prescindere dalla necessità di lasciare il proprio segno nella stanza d’analisi.
Cerco quindi di proporre l’interessante connessione, rilevante da un punto di vista statistico, tra l’aumento della violenza nelle relazioni e l’aumento delle relazioni virtuali per cercare di riflettere su come, forse, il rapporto virtuale non stia riuscendo nel necessario compito di assolvere alle funzioni di contenimento. Mi interrogo su quanto questo ambizioso tentativo di contenere senza limiti fisici, assolto da un oggetto riconosciuto per la sua indeterminatezza, internet, sia in relazione con le evidenti ricadute sull’agito e sul sentimento di onnipotenza che sembra essere alla base delle condotte violente.
Da attenzionare è quindi come il crollo verticale del valore attribuito alla corporeità della relazione, mi riferisco ai momenti in cui una relazione può stabilirsi anche in remoto, perché non è indispensabile incontrarsi, sia connesso alla crescita esponenziale degli agiti e dell’aumento di patologie del corpo. È emergente, infatti, nella clinica in età evolutiva, l’aumento di malattie psico-somatiche. Il sintomo sembra tornare a manifestarsi, come nei disturbi di conversione tipici dell’isteria, più attraverso il soma che attraverso il vissuto.
Sempre più frequentemente il paziente, dopo aver svolto le opportune indagini specialistiche, riferisce di non stare male e di riconoscere l’insensatezza dei propri disturbi fisici. Nella clinica in infanzia si registra un notevole aumento di disturbi psicosomatici come Tic, stereotipie, disturbi della coordinazione e della propriocezione, disturbi dell’attenzione, disturbi delle condotte alimentari legate a sensazione di non poter deglutire, paura di masticare o sfiducia nelle funzioni digestive.
Un altro aspetto attuale che andrebbe approfondito riguarda il fatto che le difficoltà dell’autoregolazione affettiva non riguardano solo le nuove generazioni ma anche le vecchie. Gli episodi di cronaca nera che si susseguono giornalmente non riguardano solo gli adolescenti o i giovani adulti ma anche cinquantenni, i sessantenni e i settantenni.
Questo amplia il tema del trauma che si configura in infanzia o in adolescenza e la questione del vissuto che il soggetto struttura nel qui ed ora ma soprattutto ci apre al campo delle neuroscienze e dell’azione dei neuroni specchio nel processo di contenimento e nel concepimento dell’immagine di sé. In ogni caso possiamo riflettere sulle potenzialità del rapporto con l’ambiente che continuamente sembra poter perturbare e modificare assetti di personalità riconosciuti come sostanzialmente stabili.
Questo ridimensionerebbe concezioni psicoanalitiche più ortodosse secondo le quali la struttura di personalità si determina in infanzia influenzando il corso della vita della persona, e aprirebbe all’idea di interazione continua con un ambiente che cura e disorganizza costantemente nel qui ed ora. A partire da questo punto di vista si potrebbe anche essere fiduciosi per effetto di quella stessa potenzialità: se esiste la possibilità che l’oggetto possa interferire negativamente sulla configurazione interna di un soggetto potrà certamente influire anche in positivo, in termini di cura. Questo spiegherebbe perché è efficace il lavoro psicoterapeutico.
Posto quindi, come ci propone Winnicott, che sia il corpo della madre a conferire senso di esistere, stabilità e ad avviare i processi di integrazione fisica e psichica nel bambino, si deduce quanto sia importante che un soggetto sia in contatto con un oggetto fisico per cominciare a concepire l’idea di sé. Tale rapporto restituisce al bambino la reazione ai suoi bisogni, l’effetto e le conseguenze del suo esistere.
La differenza pertanto tra relazioni disfunzionali e relazioni funzionali sembra dipendere dalla funzione di restituzione che l’oggetto rivolge al soggetto, dalla capacità quindi del genitore, di vivere il vissuto dei figli e dall’interpretazione che il figlio attribuisce a quella risposta. In altre parole si potrebbe dedurre che al fine di sancire la legittimità dell’investimento oggettuale non sia possibile prescindere da una sufficientemente buona funzione di rispecchiamento.
L’immagine restituita dal genitore del vissuto del figlio è la testimonianza della funzione di rispecchiamento.
Lo sguardo rivolto alla contemporaneità invece rivela un decentramento del sé, sempre più proiettato in un profilo social, o sugli oggetti che vanno dai dispositivi elettronici agli smartphone, agli abiti griffati alle macchine di lusso ecc., ecc.. Oggetti che fungono da prolungamenti narcisistici ma che non sono in grado di contenere, riconoscere e restituire il vissuto del soggetto.
Come Winnicott sottolinea, ciò che non può essere pensato è destinato alla scissione. Una genitorialità che non è in grado di restituire il sentimento di rabbia e di odio nella relazione porta il figlio a non riconoscere quel sentimento e quindi a scinderlo nel tentativo di liberarsene. La violenza è una manifestazione della scissione di sentimenti non comprensibili e pertanto insostenibili per il soggetto.
La deriva virtuale in conclusione ci sta conducendo verso relazioni oggettuali in cui l’oggetto non ha la funzione della pensabilità ma soprattutto non ha limiti definiti. Questo oltre ad influire nei processi di scissione alimenta il senso di depersonalizzazione a causa della debolezza, se non dell’assenza, del confine. Questo limite, che non consente il processo di simbolizzazione, sembra non favore la costituzione d’identità stabili ed equilibrate.
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Note
1. Qui mi riferisco al pensiero di Winnicott espresso nell’odio nel controtransfert che rivoluziona la concezione freudiana relativamente al transfert negativo ed al controtransfert. Gli investimenti che aggrediscono l’oggetto, collocando in esso le parti malate del soggetto, per Winnicott non devono essere destinati all’interpretazione ma al contenimento, alla pre-occupazione. La capacità di preoccuparsi è la capacità del genitore di creare nella propria mente di uno spazio riservato a ricevere i vissuti del figlio. L’odio attraverso cui il bambino investe l’oggetto deve essere tenuto a mente dal genitore. La pensabilità, da parte dell’oggetto, di quegli investimenti rappresenta per Winnicott la vera interpretazione: la capacità del genitore di rendere conosciuto ciò che per la mente del bambino è alienante.
Dott. Corrado Randazzo
Psicologo e psicoterapeuta socio SIPSIA
Presidente del Laboratorrio Psicoanalitico Vicolo Cicala
Coordinatore della rete professionale L.I.A.F