Dott. Corrado Randazzo
Psicoanalisi
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Relazione col figlio – Aspetti psicologici alla base dell’uso di smartphone e tablet delle nuove generazioni.
Di fronte ad ogni situazione nuova un individuo risponde prima cercando di definirla e poi di controllarla.
Oggi questo lo si fa con un touch…
Il fenomeno smartphone, con le sue “derivate” (tablet, internet, social, videogiochi) è diventato oggi così invasivo sia perchè favorisce l’illusione di definire e controllare tutto, sia perchè ci rimanda ad una condizione infantile di “dipendenza assoluta“. In entrambi i casi infatti ci troviamo nella illusoria condizione di essere onnipotenti.
La mia riflessione, più che articolarsi sul come eliminare i dispositivi dai quali sempre poi giovani sembrano essere dipendenti, concerne il perché se ne senta così tanto il bisogno.
I risultati dell’esperienza clinica con i giovani dipendenti da internet, tablet, social, hanno portato a pensare ai nuovi dispositivi tecnologici come a delle “protesi narcisistiche”.
Sembra infatti che per i Nativi digitali (così vengono definiti che precocemente fanno usodei dispositivi tecnologici), lo strumento tecnologico rappresenti una parte di se’. Lo dimostrano le notevoli difficoltà a separarsene che spesso sfociano in crisi o attacchi d’ansia. La perdita del dispositivo sembra rappresentare in questi casi, la perdita di una parte del proprio corpo. È per questo che il separarsene rimanda alla paura inconscia di perdere pezzi, di andare in frantumi, di svuotarsi.
Un primo punto su cui riflettere è pertanto da individuare nell’idea di “non poterci rinunciare”.
Potremmo chiederci quale futuro spetta a chi non può rinunciare a ciò che possiede. Non fa ben presagire il pensare ad una società che “teme” la separazione e la perdita di ciò che possiede (affetti, amori, oggetti di valore, genitori). Quali nuove identità ci aspettano? Identità che non perdono mai? Identità del tutto e subito? Identità che non tollerano il lutto?
L’intolleranza della frustrazione, intesa come tempo di attesa, tempo che intercorre tra la nascita di un’idea e la sua realizzazione, tra il pensiero e la meta, rappresentata dal rapporto tra la persona ed il suo dispositivo che riempie ogni singolo momento, che non lascia tempi vuoti, non lascia spazio per la noia. Neanche per quella noia nella quale “I ragazzi del muretto” si scambiavano idee, partorivano pensieri, sognavano cose, anche quelle che forse non si sarebbero poi realizzate.
Che ne sarà di tutte quelle funzioni del pensare che hanno caratterizzato l’epoca delle generazioni precedenti a quelle digitali? Le funzioni dell’attesa, del pensiero creativo, dell’immaginazione, a quali altre funzioni hanno lasciato il posto?
Dati scientifici rilevano mutamenti fisici nelle nuove generazioni , dovuti all’uso di dispositivi tecnologici, che riguardano la postura, la vista, l’udito ed anche mutamenti cognitivi per cui sembrano pregiudicarsi sempre più funzioni come quelle della memoria a lungo termine o del problem solving mentre si sviluppano di più funzioni che fanno pensare ad una mente multitasking.
Oltre ad approfondire gli effetti sul corpo, rilevati dall’abuso dei nuovi dispositivi tecnologici, soprattutto nel caso dei così detti nativi digitali, che vanno verso una nuova sensorialità, o della progressiva perdita del senso di autonomia ed auto-efficacia, mi è sembrato opportuno, in questa discussione, mettere in evidenza come questo fenomeno pervasivo influenzi gli aspetti emotivi e quindi le dinamiche relazionali, alimentando un “pensiero magico”.
Mi riferisco ad esempio alla fantasia di poter ottenere ciò che desideriamo in qualunque momento accedendo con un click alla tastiera dello smartphone.
Mi riferisco all’illusione di poter controllare tutto e tutti, in ogni momento.
Mi riferisco alla paura, esorcizzata da selfie, di non poter trattenere a mente ogni singolo momento della nostra vita e di non ricordare ogni piatto che abbiamo mangiato ed ogni vestito che abbiamo indossato.
Mi riferisco alla difficoltà a poter rinunciare a quell’immagine di noi che giorno dopo giorno cambia e che fra trent’anni non sarà più la stessa.
La tecnologia, nei casi in cui non se ne riesce a fare a meno, sembra rappresentare un tentativo di fermare il tempo. Quello stesso tempo che ci separa dalle cose che amiamo.
Ciò che un genitore può fare oggi credo abbia a che fare con la qualità della relazione col figlio, intendendo per qualità tutto ciò ha a che fare col “dare” senza però fare uso di oggetti.
Potrebbe essere utilerispolverare la cultura del “limite” a discapito delle fantasie di onnipotenza. Mi riferisco al genitore che non idealizzava il figlio (“sei tu il campione”) e che sponsorizzava di più l’esame di realtà (“non potrai avere tutto dalla vita”).
Potrebbe essere utile educare i giovani alla sconfitta, alla fallibilità, perché la clinica infantile ci insegna che le più grandi paure dei bambini sono di fallire o di essere lasciati soli perché non adeguati.
Ciò che ritroviamo negli studi degli psicologi non sono incapacità ma paure. Ecco perché bisognerebbe incalzare meno i giovani sullo sviluppo delle capacità cognitive, rischiando di farli sentire costantemente inadeguati ed incoraggiarli di più a pensare ai propri sentimenti e ad affrontare le proprie paure (che non hanno a che fare con l’intelligenza e con le funzioni cognitive ma con le relazioni interpersonali).
Il vero aiuto che chiedono I giovani è sul piano emozionale. La loro domanda è “posso farcela da solo con i miei pensieri, con le mie emozioni, oppure ho bisogno di un supporto?”
Oggi i genitori si avvalgono di supporti esterni per entrare in relazione con i figli. Supporti che rappresentano la paura di fallire del genitore stesso. Un esempio è rappresentato dalle App della prima infanzia.
Questo punto, il timore di fallire del genitore nel suo ruolo educativo ed il ricorso a supporti esterni che lo aiutino ad essere genitore perfetto per far crescere figli perfetti, evidenzia l’altra faccia della medaglia e cioè la responsabilità dell’ambiente nell’alimentare le dipendenze dei figli dai dispositivi.
Mi sembra plausibile pensare che il genitore compia un grande lavoro quando sostiene i pensieri del bambino, anche se questi non coincidono con i propri.
Uscire da questa forma di dipendenza si può imparando a tollerare l’assenza, la mancanza. Ma sembra evidente che questa capacità non può essere sviluppata solo da chi dipende da un dispositivo, e quindi il figlio, ma deve essere favorita dai genitori.
La crisi familiare a cui assistiamo sembra coincidere fortemente con il progredire di modelli educativi che consentono ai figli di sostituire le relazioni interpersonali con relazioni virtuali.
Nei casi più conclamati di dipendenza da internet, tablet, social, è necessario un intervento che consenta di svelare dinamiche relazionali disfunzionali attribuibili all’ambiente familiare del figlio. Tale intervento può essere svolto da psicologi ad orientamento Psicoanalitico.
Questo tipo di approccio psicoterapeutico in particolare consente di mettere in moto un processo di comprensione di se’ che permetta alla persona di riscoprire il senso ed il valore simbolico attribuito ai dispositivi in questione e di superarli.