Dott.ssa Donatella Lisciotto
Psicologia
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Non vorrei parlare di adolescenza come farebbe un tecnico, piuttosto mi sforzerò di pensare ai limiti dell’adulto, quelli che lo allontanano dalla comprensione del meccanismo dell’adolescente, un meccanismo che si è archiviato una volta “cresciuti”, fino a dimenticarcene il linguaggio e le regole. Spesso, infatti, la difficoltà che si incontra con l’adolescente è data dal fatto che ci troviamo ad un altro livello, lontanissimi da lui, dalla visione che ha del mondo, dalle sue paure e dalle sue passioni e, per di più, imprigionati nel ruolo di educatori, non sappiamo ascoltarlo. Per non essere un problema per il ragazzo, l’adolescenza, innanzitutto, non dev’essere un problema per il genitore.
La richiesta che proviene dai genitori di comprendere il figlio divenuto adolescente è, allora, l’esigenza di comprendere, piuttosto, le proprie difficoltà nel rapporto con lui.
Proprio la difficoltà di “capirlo” ci può rendere aspri, astiosi, perché sentiamo che le nostre risorse educative vengono messe fortemente in discussione e allora diventiamo aggressivi, rancorosi e la delusione derivante dal fatto che l’impresa educativa non viene più riconosciuta e rispettata dall’adolescente, come quando era bambino, viene vissuta come un “tradimento”.
A volte sembra che il genitore, a fronte dei comportamenti del figlio adolescente, ponga in essere atteggiamenti che lo spingono all’adozione di uno stile infantile piuttosto che rivestirsi di autorevolezza.
“Perché non ubbidisci! Mi devi ubbidire, subito! Ubbidiscimi!”
Questo sentimento “passa” a lui, in maniera subliminale, facendogli sentire un’estraneità che lo allontana sempre di più. Davvero finisce per sentirsi alieno e adotta atteggiamenti alienanti. La cosa più triste che può capitare è sentire il nostro bambino diventare un estraneo e, per lui, sentire che il suo premuroso genitore diventi estraneo a sé, lontano e sadico. Intanto dico subito che non faccio distinzione tra “adolescente” e “adolescenteadottato”: il bambino che è stato adottato diviene adolescente come tutti gli adolescenti. Sembra una banale semplificazione ma non lo è.
L’adolescente e i suoi genitori
Le regole del gioco sono le stesse; anzi, a volte, indugiare sul suo passato (l’abbandono, l’istituzionalizzazione, le deprivazioni, gli abusi, ecc.), può impedire di vedere la sua attualità, confermandogli, inconsciamente, la non-appartenenza alla famiglia, all’attuale realtà. Si mantiene, in questo modo, nella famiglia un’area un scissa in cui insiste l’antica storia del bambino, (l’”abbandonatoadottato”), e l’identità dei genitori risulta viziata (i “genitori adottivi”). Allora succede che piuttosto che entrare in relazione, i due genitori con il loro bambino, entrano in relazione i “genitori adottivi” col bambino “adottato”, cioè il bambino assume in sé l’identità “dell’adottato”, che supera quella dell’essere semplicemente un bambino; i genitori, ugualmente, assumono l’identità di “genitori adottivi”, identità che occupa il posto di quella che comporta essere semplicemente genitori. In questa sede mi sembra di primaria importanza riuscire a scardinare queste posizioni che sono, perlopiù, posizioni soprattutto interne e, in quanto tali, difficili da scalfire, sebbene la consapevolezza, lo svelamento di esse sia già un passo in avanti verso la risoluzione.
L’adozione, in qualche misura, può porsi tra il genitore e il bambino, ostacolando la loro unità e mantenendo l’esistenza di due entità separate, poiché non hanno potuto condividere il momento primario del legame.
Se è vero che il modo in cui si è vissuta l’infanzia ricade sul modo di vivere l’adolescenza, è anche vero che il modo di vivere l’adolescenza si rifletterà sul futuro dell’adolescente, quindi è importante attualizzare l’adolescenza, cioè viverla (da parte dei genitori) e farla vivere (al ragazzo) con le inferenze del presente e non del passato, alla luce delle dinamiche attuali e non di quelle antiche, che, ci piaccia o no, appartengono ad un’altra epoca, sono superate e, del resto, noi non ne facevamo parte, non c’eravamo. Bisogna “preoccuparsi” piuttosto del clima familiare attuale e quali siano le proiezioni che vi insistono (dei genitori, della coppia, dei figli, dei nonni, della nuova storia familiare).
L’adolescente è un individuo di passaggio. Egli si trova nella difficile condizione di lasciare “la via vecchia per la nuova”.
L’adolescenza è, infatti, uno snodo esistenziale, un crocevia dove tutto ciò che ci ha concesso di vivere in modo stabile prima non va più bene, decade; le certezze, le emozioni e persino talune percezioni di se’ stessi e del mondo, non sono più le stesse, quelle conosciute, collaudate e che davano stabilità.
Si perde qualcosa di molto importante che ha istituito l’individuo sino a quel momento, si perde la condizione infantile. A guastare il gioco sono i cambiamenti interni ed esterni del corpo, le pulsioni. L’adolescente è scosso, è abitato da un subbuglio vulcanico che lo rende insicuro, ansioso e instabile. E’ triste ed eccitato, ritirato e grandioso, a secondo se si sta misurando con la pena per la rinunzia infantile o con l’ebbrezza di un più cospicuo vigore, l’adultità.
Nonostante l’età avanzi, non vorrei tornare adolescente, perché gli sforzi che si fanno per superare questo delicato periodo sono davvero impegnativi e mi sono convinta che l’adolescente affronti e riesca ad andare oltre solo perché aiutato dalla spinta naturale e propulsiva, tipica della sopravvivenza, del procedere, dell’andare avanti e raggiungere “altre”, sconosciute piattaforme.
L’adolescente viene, più o meno improvvisamente, o anche con una gradualità che può essere avvertita come allarmante, investito da una quantità di stimoli nuovi e trasformazioni corporee evidenti, che lo deprimono e lo eccitano allo stesso tempo.
Il menarca nelle bambine, il cambiamento di voce nei bambini, l’apparizione dei bottoncini mammari e l’aumento delle dimensioni del pene, i bei faccini diventano, dalla sera alla mattina, brufolosi e purulenti, e, come se non bastasse… la comparsa dei peli!
Una trasformazione che sa’ di trasfigurazione. Ricordo una bambina di appena dieci anni che alla comparsa delle sue prime mestruazioni impallidì e chiese con disarmante candore: “E ora che mi succede, muoio?”.
In effetti, non si sbagliava più di tanto, perché l’inizio dell’adolescenza è avvertito come la perdita, senza appello (proprio come un morire), dell’infanzia con tutte le sue comodità e privilegi, ma, di più, è la perdita di un’identità. Abbandonare l’infanzia significa che una parte di noi perde questa identità; è il primo segnale che l’adolescente sente proviene dal suo interno, non può far finta di niente, lo sente inequivocabilmente, in un misto di eccitazione e smarrimento, lo sente perché gli viene richiesto da se stesso (nuove pulsioni, nuove sensazioni fisiche) prima che dal mondo esterno.
In questo periodo, allora, può apparire uno stato mentale come di malinconia che è una nostalgia per quello che se ne sta andando, l’infanzia. L’ambiente a volte non aiuta l’adolescente nell’impegno di superare l’infanzia; anzi, spesso, le richieste dell’ambiente diventano invadenti, più pressanti ed esigenti proprio perché non allineate al turbamento interno dell’adolescente (studia, non stare sempre lì a giocare, non mangiare tutta quella cioccolata, ingrassi e ti si cariano i denti, sbrigati, arriverai tardi a scuola, fai sempre sciocchezze, non cresci mai, è una settimana che non ti fai una doccia, ecc., ecc.).
A tutto questo l’adolescente risponde con delle performance che stressano ancor più i genitori (“non ti riconosco più!”).
Il suo rinchiudersi nella stanza, il non partecipare più come una volta in seno alla famiglia, la sua trasandatezza, la scelta di un’amica del cuore, la trasgressione, sono segnali della presenza di un’apatia depressiva e del bisogno di consolazione, di conforto, da un lato e, dall’altro, rispondono al tentativo di soggettivarsi, cioè diventare “soggetti” separati dai modelli di riferimento che fino a quel momento amavano e ricercavano.
Un ragazzo, un liceale, una volta mi disse che si sentiva fortemente irritato da un preciso atteggiamento della madre.
Gli chiesi quale fosse.
“Quando torno da scuola mi fa trovare sempre l’ovetto kinder, non lo sopporto, …non sono più un bambino!”
A questi atteggiamenti, spesso, l’adulto risponde rincarando la dose, nel tentativo di scuotere il ragazzo piuttosto che interagire con rispetto. Insomma, è come dire a chi si è ustionato di stare sotto al sole.
A questo proposito riporto un caso significativo.
I genitori rimproverano il figlio diciottenne per una sua defaillance.
Si sentono soddisfatti della loro funzione educativa: “Una buona strigliata ogni tanto ci vuole” si dicono.
Il giorno successivo, la figlia (anch’essa adolescente), fa presente ai genitori di essere stati “troppo duri” col ragazzo; allora la madre dice “lo abbiamo voluto scuotere”.
E la figlia: “lui non ha bisogno di essere scosso, è già scosso di suo, anzi è in subbuglio”.
Questo è un semplice esempio di come si sbaglia con un figlio adolescente, pur pensando di fare il suo bene, e di come l’ascolto (le parole della ragazza) fa “vedere” ciò che l’emergenza educativa oscura. Voglio dire che, presi dal compito di normare, guidare, organizzare, spesso l’adulto non ascolta ciò di cui ha più bisogno l’adolescente. In questo caso la madre è stata aiutata dalle parole della figlia, più vicina al ragazzo per età e stato mentale.
Devo aggiungere, infatti, che la trasformazione a carico degli adolescenti, colpisce anche i genitori degli adolescenti che, spesso si trasformano essi stessi da essere amabili e comprensivi a spietati critici, spesso, umiliando e mortificando i propri figli.
Questa posizione la si può mettere in relazione con la delusione propria dei genitori che, a loro volta, sono impegnati a lasciare andare con e attraverso l’infanzia del loro bambino, anche la loro infanzia o il loro essere infanti, infantili, contemporaneamente sono costretti ad affrontare un periodo che li pone in una condizione nuova, mai sperimentata e sicuramente più difficile della prima. Mi è capitato spesso di incontrare, dopo anni, i genitori dei compagni di asilo o delle scuole elementari dei miei figli e, chiedendo notizie dei loro figli, di imbattermi in una posizione da parte loro molto delusa e critica, come se stessero parlando di un “altro” figlio (“non me ne parlare, non ne posso più…combina solo guai, quello…”).
Allora mi sono chiesta: “ma che fine ha fatto Alberto? E Luigi? Come è potuto diventare “quello”? Che cosa ha potuto trasformare il sentimento di smisurato amore materno in una critica così spietata?”. Non si è genitori nello stesso modo, non c’è cioè un essere genitore per tutti i tempi e per tutti i ragazzi. Essere genitore di un bambino neonato è diverso che esserlo di un bambino che va a scuola e lo è ancora di più quando questo bambino diventa adolescente.
Essere alle prese con un bambino che fa i capricci perché vuole l’ennesima fetta di pane e nutella non è la stessa cosa che gestire un adolescente che torna ogni notte alle quattro del mattino.
E’ per l’adulto una messa alla prova molto difficile. Allora, quando parliamo di adolescenza non dobbiamo pensare solo all’adolescente fine a se stesso, come se fossero solo “fatti suoi”, quanto a tutto un processo che interessa l’intero gruppo famigliare; il genitore dell’adolescente è anch’esso, di striscio, impegnato ad affrontare, di nuovo, la sua adolescenza, e siamo fortunati se esso (il genitore) se l’è vissuta la propria adolescenza, altrimenti non sarà ben equipaggiato asuperarequelladelfiglio. Non è raro, infatti, assistere a manifestazioni regressive dell’adulto di fronte alla crescita del figlio.
L’adolescenza del proprio figlio scandisce il tempo che trascorre, posizioni, interne ed esterne, che si devono abbandonare, passaggi, superamenti di stati mentali ed emotivi; tutto ciò comporta, per chi non ha accettato a tempo debito il proprio cambiamento adolescenziale, cioè non è riuscito a mollare lo stato mentale di sicurezza di cui ha goduto nella propria infanzia, un tornare indietro, come a voler restare agganciati a un tempo giovanile che se ne sta andando. In questo caso si è soliti dire “non ha fatto il lutto, non ha elaborato”. L’adolescente, allora, funziona per il genitore come un impietoso specchio che rimanda il nuovo stato che molti di noi non sono pronti ad accogliere poiché si sono fermati ad una data fase del loro sviluppo emotivo, anche se nella scena sociale sono, di fatto, diventati professori, avvocati, politici, premier (!)
E poi c’è l’invidia. Sì anche tra genitori e figli scatta l’invidia. Siamo abituati di solito a pensare che siano i figli ad invidiare i genitori, gli adulti, ma invertiamo l’immagine e ci accorgiamo che anche gli adulti invidiano gli adolescenti; invidiano la loro giovinezza, il tempo che hanno a disposizione, la possibilità di fare “cazzate” e di essere perdonati, la bellezza, la freschezza della carne, la potenza fisica e sessuale, le relazioni promiscue, la libertà. Naturalmente tutto ciò viene sofferto di più da quegli adulti che, appunto, non hanno “fatto” la loro adolescenza o che non si sono ancora decisi ad uscirne, entrando così in competizione col proprio figlio adolescente.
Non è raro il caso di coppie che si rompono durante l’adolescenza dei figli o che incappano nella cosiddetta “infatuazione” spesso per partner molto più giovani (questo è soprattutto vero per l’uomo solo perché pesano tuttora statuti sociali e culturali, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe molto lontano da qui).
E della madre che si gonfia di botulino, ne vogliamo parlare?
Di fronte alla freschezza e alla giovinezza della figlia, alla sua seduttività, sembra che la donna non possa sopravvivere al panico dei segni sul suo viso o si senta inconsciamente derubata dalla figlia che si propone sulla scena a suo detrimento. A volte succede che la difficoltà della madre di accettare i “raggiunti limiti di età”, diciamo, porti la donna a rafforzare un’alleanza inconscia con la parte femminile e seduttiva della figlia adolescente, provocando delle forzature che inclinano la ragazza ad adottare atteggiamenti esageratamente seduttivi, come se la figlia si sentisse inconsciamente autorizzata dalla madre, o meglio dalla depressione della madre, a rappresentare oltre che il suo essere femminino anche quello della madre.
Una responsabilità non da poco. E che peso…
Si sa che la preoccupazione della vecchiaia che avanza vada di pari passo con la crescita dei figli e sia strettamente legata a una condizione depressiva che l’evoluzione dei figli promuove nel genitore, laddove non è avvenuta, prima, un’adeguata elaborazione della propria adolescenza e, quindi, un sereno approdo all’età adulta.
Mi accorgo di aver parlato di più del genitore dell’adolescente che dell’adolescente, ma perché credo che in molti casi essi non siano sostenuti dai genitori che, mettendosi di traverso, non li aiutano a superare questa delicata fase, così come invece lo hanno fatto durante le battaglie dell’infanzia in cui, trovare dei genitori comprensivi e accoglienti, ha spianato loro la strada. Ciòchecredosiaprimario è ascoltare l’adolescente, la vicinanza silenziosa. Invece accade spesso di assumere comportamenti troppo reattivi, perché il rapporto col figlio adolescente riattiva la propria adolescenza e il modo in cui siamo stati aiutati dall’ambiente a viverla e superarla, e anche perché controtransferalmente, entriamo in contatto con i dubbi e le incertezze dell’adolescente stesso.
E’ vero che l’adolescente ci fa confondere e ci fa sbagliare.
Mi è capitato di ricevere genitori preoccupati per il figlio adolescente, ma, al colloquio col ragazzo, accorgermi che la problematica era relativa piuttosto ai genitori; non che fossero genitori inadeguati o nevrotici, affatto, si trattava piuttosto di genitori “lenti”, rimasti indietro, che non si erano voluti accorgere che il proprio bambino si stava evolvendo, stava assumendo altre forme. In molti casi ho visto tenerezza, pazienza e obiettività da parte dei ragazzi nei confronti dei loro genitori (“sono arrabbiati perché non sto più con loro come prima… perché non voglio partire con loro… accontento papà che mi vuole portare allo stadio con sé… mia madre è capricciosa come una bambina… che ci possiamo fare”); mentre al contrario prevale l’irrigidimento e la presunzione dei genitori nei confronti dei figli (“non si può continuare così… cosa si è messo in testa… è un altro… scambia la casa per un albergo… finché sta con noi deve fare quello che diciamo noi”).
Parlare e rapportarsi con un adolescente è un’esperienza stupefacente e inquietante.
Lui è un treno in corsa, un intercity. Ti sembra che si sia soffermato su un argomento, che sia fermo in una qualche riflessione e invece è già lontano, da un’altra parte, dietro ad un altro pensiero, ad un’altra impresa, e magari tu sei rimasto lì a temporeggiare, con i ritmi della pensabilità dell’adulto. Così com’è altrettanto vero che il pathos dell’adolescente è momentaneo, passeggero; una “crisi” può essere superata se arriva l’sms dell’amica.
E poi, all’improvviso… un pensiero maturo, una saggezza inaspettata, dà l’idea del funzionamento dinamico, ecclettico, espanso, tipico dell’adolescente. L’adolescente sano ha un’inquietudine fisiologica, un disordine e una disorganizzazione sana, pertanto non gli si può troppo chiedere di riordinare la sua stanza, i suoi cassetti, come non si possono avere da lui delle risposte comportamentali e sentimentali ordinate, organizzate. Paradossalmente un adolescente che riordina con meticolosità la sua stanza, la sua libreria, il suo zaino, dà da pensare; questo comportamento potrebbe rispondere alla difficoltà inconscia di tollerare la crisi adolescenziale, il suo disordine interiore, e al tentativo di mettere tutto a posto per evitare invasioni di campo (il vento pulsionale!).
A quest’età è auspicabile che l’adolescente abbia reazioni aggressive piuttosto che compiacenti, che sia reattivo e polemico, che si alleni a contestare i genitori, l’istituzione familiare, perché questo gli darà, in seguito, la capacità di contestare altre organizzazioni, altre istituzioni più vaste, di essere critico perché questo ridurrà il rischio del conformismo, o che l’essere eccessivamente accondiscendente (“yesman”) lo faccia diventare oblativo e finto, maggiormente rispondente ai bisogni che la società impone piuttosto che a un suo “godimento”.
Così com’è altrettanto auspicabile che possa viversi i suoi momenti di criticità, il ripiegamento in se stesso, la sua sana depressione, senza sentirsi colpevolizzato per l’allarme che scatena all’interno della famiglia; questo lo allena ad avere la capacità di sostenere la crisi evolutiva, il disorientamento, la delusione circa promesse di vita che vanno disidealizzandosi dentro di lui e, per questo, lo rafforzano.
E allora, che fare con un figlio adolescente?
L’approccio da adottare potrebbe essere quello di “non creargli altri problemi” oltre a quelli che ha già dovendo affrontare l’adolescenza.
Abbandonare, con parsimonia, il piglio educativo tout court a favore di un più disteso ascolto, farsi contestare serenamente, senza drammatizzare, perché, parliamoci chiaro, nella maggioranza dei casi, l’adolescente a sfangare le giornate ci riesce da solo, noi possiamo solo essere una sponda sicura e non persecutoria, né punitiva, un esempio di attesa paziente a che tutto si compia, ognuno nel rispetto e nella valorizzazione della propria origine, qualunque essa sia.
Articolo molto interessante. Bellissima iniziativa a Messina