genitorialità adottiva 05 Apr 2019

Dott.ssa Diletta La Torre

Psicoanalisi / Società

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Dall’incontro “Parliamone con” del 24 novembre 2018 a Messina

Nel mio titolo tutte le parole si possono considerare parole chiave, quindi spero di non annoiarvi con il mio invito a porre attenzione alle parole.

La genitorialità adottiva come l’essere figli adottivi comporta una complessità sia sul piano psicologico-esistenziale che sul piano giuridico, burocratico e sociale. Con tale complessità sono venuta a contatto in vari modi nella mia professione psicoanalitica, più direttamente nella mia esperienza con l’associazione GSD, negli incontri come questo e soprattutto nei gruppi di mutuo aiuto di genitori adottivi, esperienza molto ricca e contraddittoria in cui è emersa tutta la complessità cui ho accennato.

Ma ancora di più, la frequentazione con i genitori adottivi, con voi e con i vostri problemi, ansie ed emozioni burrascose, mi invitava ogni volta a farmi domande sulla genitorialità tout court, sulle motivazioni a divenire genitori, sul posto che un figlio o una figlia occupa nella mente e nella famiglia, premessa anticipatoria di quello che occuperà nella società. Ed è facendo riferimento in modo latente, sottotraccia, a questa esperienza che ancora mi sollecita a distanza con ricordi e riflessioni che articolerò la conversazione di oggi.

Bisogni e desideri sono termini usati spesso in modo interscambiabile come sinonimi, vi voglio invitare a porre attenzione alla differenza tra desideri e bisogni, (Treccani, 2014) una differenza cruciale insita nel significato di adozione, come vedremo. Senza dilungarmi eccessivamente, dirò che i bisogni sono più aderenti alla nostra parte istintiva e animale, anche quando il termine è usato in modo metaforico sottintende il criterio di necessità, il vincolo di certe forze quasi insopprimibili, la coazione e l’urgenza, che allontana dalla sfera del libero arbitrio e della consapevolezza più autentica. Il livello del bisogno è quello della ricerca di una soddisfazione di tipo omeostatico, volta ad annullare le tensioni che stanno dietro agli istinti secondo la definizione di pulsione data da Freud (Freud, 1905). Il bisogno richiama anche l’idea di aiuto, di un’azione o di una cura che possa fare cessare la condizione di squilibrio del sistema (uomo, donna o famiglia o gruppo sociale) se vogliamo allargare il concetto. Inoltre i bisogni ci accomunano nella classe di esseri umani, di esseri animali, di essere corporei e quindi limitati e condizionati dalla fisiologia e dalla patologia fisica, dall’età, dalle condizioni economiche ecc. e ci allontanano dalla sfera prettamente individuale e soggettiva che emerge completa nella parola desiderio.

L’etimologia della parola desiderio è affascinante, richiama l’idea di essere lontani dalle stelle o di essere privi di stelle e quindi di non potere indovinare/ predire il futuro, fa riferimento alla Grecia antica e alla funzioni degli auspici tratti appunto dalle stelle (Treccani, op. cit.) Bisogno e desiderio condividono l’idea di una mancanza, di uno stato di dispiacere o di tensione connesso ad essa, ma la mancanza sottesa dal desiderio è una mancanza meno legata al corpo e più alla mente e allo spirito, evocando una dimensione trascendente. Nella qualità di tale mancanza e negli effetti che genera nella persona come essere desiderante si caratterizza senza esagerare la nostra soggettività più piena. La psicoanalisi insiste su tale dimensione perché spesso le persone che ci consultano per varie situazioni di infelicità, disagio, o sofferenza psichica hanno rinunciato alla dimensione del desiderio, oppure questa è coartata, impedita e repressa o, al contrario, è cosi sopravvalutata e dominante da impedirne ogni realizzazione parziale, che non sia l’assoluto del desiderio stesso.

Desiderare significa -e questo si deduce a partire dalla etimologia e dal rito della profezia- rinunciare a certezze, convivere con la mancanza di stelle intese come punto di riferimento che indica una verità, una dimensione predittiva e consolatoria del futuro. Ma le stelle sono presenti nella parola stessa, quindi nella psiche che aspira ad esse, che cerca la luce e la brillantezza nei propri cieli, o orizzonti esistenziali. Sulla base dei nostri desideri agiamo sospinti da una forza potente che ci fa svolgere lo sguardo in alto, che ci fa sognare e immaginare senza darci alcuna certezza, ma direzionando le nostre azioni e colorando ogni elemento del nostro vivere della qualità di una ricerca che è solo nostra (anche se come contenuto può coincidere con quella di molti altri).

Lo specifico atteggiamento che ciascuno di noi ha nei confronti del desiderio ci fa essere come siamo, molto di più che i tratti di personalità o certi modi di essere e di comportarci. La persona desiderante ha una tensione verso la meta-oggetto del desiderio, una tensione intelligente e consapevole, non cieca, ma illuminata come un cielo stellato, chi desidera rifiuta l’arroganza e la stupidità di presumere che un desiderio abbia valore solo nella sua soddisfazione, nell’oggetto del desiderio stesso che evoca mancanza e quindi sofferenza, chi desidera sa che avrà sempre a che fare con la mancanza che solo si sposterà da un oggetto a un altro o si ritroverà nello stesso oggetto che in ogni caso non potrà colmare del tutto la mancanza, perché la mancanza è elemento fondante dell’umano.

La tensione esercitata dalla mancanza e la spinta a realizzare il desiderio è l’alimento della vitalità psichica, quello che ci sostiene nelle difficoltà e nei dolori della vita, che ci fa andare avanti con lo sguardo volto verso l’alto.

La parola adozione contiene il desiderio, scegliere e seguire, chi adotta un bambino lo porta a sé per scelta, perciò stesso si obbliga a seguirlo, a dare seguito a tale scelta, è una scelta che si unisce ad un progetto di presenza e di attenzione, di cura. Non si fa una volta e basta, una volta per tutte ma una volta per sempre: la dimensione del futuro è implicita nel presente della scelta. Questo forse fa capire perché i fallimenti adottivi siano così colpevolizzanti: l’impegno non ha avuto seguito, questo fa capire come sia indispensabile che una coppia prima di adottare sia consapevole del passo che fa e dell’impegno che prende, anche se ancora una volta ciò non protegge del tutto.

Genitorialità

Si tratta di bisogno e o di desiderio? E come fare a distinguerli? E perché è importante farlo? La domanda è: avere un figlio o essere genitori?
Il desiderio di procreare è legato alla spinta biologica di continuare la specie trasmettendo i propri geni ed alla spinta personale a trascendersi nel figlio, un desiderio di immortalità. Il desiderio di immortalità rappresenta indubbiamente il desiderio conscio o inconscio più forte per l’uomo perché allontana l’angoscia di morte.

Scrive Freud un secolo fa:

Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori: il maschio deve diventare un grand’uomo e un eroe in vece del padre e la femmina deve andare sposa ad un principe in segno di riparazione tardiva per la madre. Nel punto più vulnerabile del sistema narcisistico – l’immortalità dell’io che la realtà mette radicalmente in forse – si ottiene sicurezza rifugiandosi nel bambino.
(Freud, 1914, p. 461)

Anche se i contenuti possono sembrare anacronistici le parole di Freud sono valide ancora oggi, nel senso che Il desiderio di maternità/paternità appartiene alla parte narcisistica della personalità che dovrebbe essere integrata con le altre componenti del sé, nel narcisismo sano è un desiderio, nel narcisismo patrologico un bisogno: di possesso, di controllo, che rende il figlio oggetto delle aspettative dei genitori e non libero di realizzare il proprio destino autonomo di persona. Tuttavia tali aspettative non possono essere del tutto soppresse.

Ad una donna che reggeva un bambino al seno, Kahlil Gibran (1923) disse:

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della fame che in se stessa ha la vita.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi. E non vi appartengono…

Il poeta dunque, che è in grado di attingere dall’inconscio e sa esprimere sentimenti universali, ci dice che i figli non ci appartengono, non si possono quindi «avere».
I figli ci rendono genitori, ampliano il nostro essere dotandoci di altre competenze e qualità.
Mi piace ricordare le funzioni principali della genitorialità secondo Meltzer (1986): la capacità di generare amore, la capacità di sostenere la speranza, la capacità di contenere la sofferenza, la capacità di pensare.

Sempre più si sente parlare di maternità e paternità «responsabili», la qual cosa comporta la capacità di «essere genitori». Questa conquista impedirebbe che i figli rappresentino la possibilità di realizzare i desideri dei genitori di cui parla Freud, o almeno costituirebbe un forte limite a questa evenienza.
Certo è cosa diversa decidere se avere o meno un figlio e quando nel caso di capacità procreativa indenne o meno. Fino agli anni 60 non si metteva in discussione il motivo di mettere al mondo un figlio, era un dato scontato, poi si cominciò a fare, la sessualità femminile divenne più libera e la procreazione controllata permise la scelta alla donna, se essere madre o no, se essere madre sempre e comunque o poter scegliere.

Parallelamente il tema della scelta e della genitorialità responsabile ha aperto anche dalla parte del desiderio di un figlio laddove vi siano degli impedimenti nella funzione generativa, il margine alla decisione e alla possibilità di scelta si amplia in un senso e nell’altro. Oggi non si accetta la rassegnazione e il fatalismo, e ciò espone a maggiore frustrazione ed aumento di responsabilità che non tutti sono in grado di sostenere. Volere a tutti i costi un figlio forzando ogni barriera biologica può riflettere il bisogno di una maternità concreta all’insegna dell’onnipotenza implicando in tal caso «limitazione, prigionia, ovvero controllo dell’oggetto che si ama» (Fromm, 1976, p. 69).

E veniamo al desiderio di adottare. Che cosa spinge una coppia all’adozione, si tratta di un bisogno, di un desiderio, di entrambi, è possibile discernere la qualità del vissuto, e come?
La mancanza preesiste all’adozione per entrambe le parti, per genitori adottandi e da parte dei figli adottati.

Questo è l’elemento che accomuna genitori e figli, ma purtroppo nei fatti anche divide perché causa sofferenze non esplicitate e anzi nascoste e negate.
È importante invece che ci soffermiamo sulla mancanza che agisce a monte dell’adozione e della scelta adottiva. Il dolore è molto astuto e trova vari modi per dissimularsi, cambiare di posto, allontanarsi e uscire di scena per poi ripresentarsi come fantasma senza forma e senza volto, quindi più terrificante perché reso estraneo e spaventoso. Questo avviene dalla parte dei genitori e dalla parte dei figli, perciò abbiamo il dovere di soffermarci prima di ogni altra cosa sulle nostre ferite come genitori e questo vale per tutti i genitori, altrimenti rischiamo non solo di gettare tutto il carico sui figli imputando al loro trauma e alla loro sofferenza tutte le difficoltà (cosa fin troppo facile), ma anche di acuire le proprie senza sperimentare quel piano di condivisione emotiva che ogni genitorialità richiede.

Se la coppia decide di adottare è una coppia che nella maggior parte dei casi non ha potuto generare, la ferita legata alla sterilità deve essere attraversata prima dell’adozione e anche contestualmente: “genitori si diventa” perché il lavoro psichico si fa in continuazione, non una volta per tutte, la mancanza della capacità di generare produce sofferenza e vergogna non meno dell’abbandono dalla parte dei figli. Due ferite vengono a contatto, ma non è questo il problema, il problema è come trattiamo la ferita, e le conseguenze di esse. Non è la nostra fragilità e quella dei nostri figli a causare i più grandi problemi di comunicazione e di relazione, sono le difese che si costruiscono spesso inconsciamente ed erigono barriere e nascondigli volti a proteggerci dal dolore psichico ma in realtà procurando un livello ulteriore di danno.

Tra le difese più comuni ed anche legittime su un piano di comprensione, c’è quella di considerare l’adozione l’atto inaugurale della famiglia, in cui finalmente il posto del figlio viene ricoperto dal bambino come il nuovo nato della coppia, questo atteggiamento risulta comprensibile poiché nella mente è impresso il modello della genitorialità biologica, tuttavia non è esente da fraintendimenti che possono dar luogo a nuova sofferenza. Infatti il bambino che arriva non è nato dalla coppia, è accolto da essa, egli o ella è nato altrove e da un’altra coppia, ed è sempre cosi, anche se questo altrove fosse la porta accanto. (Artoni, 2006). Questo modo di venire al mondo e di venire infine nella nuova famiglia o per la prima volta in una famiglia non deve essere dimenticato.

L’adozione non è un sostituto per una maternità che non si è potuta realizzare. L’adozione è un modo specifico di formare una famiglia, non è lo stesso evento della genitorialità biologica, tale diversità è una spina nel cuore, mentre dovrebbe essere, e può essere, un dato altrettanto naturale e accettato e per questo deve essere accettato prima di tutto dagli stessi protagonisti dall’adozione. Si sente dire spesso che la società non è preparata nei confronti di queste famiglie, si denunciano atteggiamento discriminatori, si attacca spesso la scuola per la sua inadeguatezza e scarsa sensibilità nel percepire e nel rispondere ai bisogni specifici dei bambini adottati e dei loro genitori.

Tuttavia, con lo stesso impeto si attaccano la scuola e la società per il fatto di non considerare i loro bambini come tutti gli altri. Purtroppo questa ambiguità non può essere eliminata del tutto, anche perché è reale: l’una e l’altra posizione hanno delle componenti di realtà, ma dobbiamo interrogarci prima di tutto sulla nostra stessa ambiguità.

Come consideriamo i nostri figli o parenti o amici adottivi? Diversi o uguali? Diversi vuol dire meno importanti, discriminati, oppure portatori di caratteristiche che richiedono una specifica attenzione? In caso di diversità somatiche specie se sono rilevanti si accusano la società e la scuola di razzismo, io non nego che molte di queste accuse siano verosimili e giuste, e anzi sono convinta che da queste critiche si debba partire (come si è fatto e si sta facendo) per informare e formare insegnanti ed educatori e per diffondere la cultura dell’adozione facendola penetrare in modo pervasivo in tutti gli ambiti, anche nel nostro campo di specialisti psicoterapeuti.

Si nota una forte ambivalenza e anche confusione a proposito di come considerare la nascita adottiva rispetto alla nascita biologica, per me la nascita adottiva è una seconda nascita ed è quella più importante perché accompagna lungo tutta la vita, e dunque non c’è motivo (dal punto di vista cosciente e razionale) di considerarla come qualcosa da nascondere o da dissimulare. Sappiamo che questo era l’atteggiamento più frequente qualche generazione fa, e che per fortuna con il progresso e l’evoluzione del sapere e delle esperienze questo assunto è cambiato, però qualcosa rimane al fondo e nel profondo di questo pregiudizio.

Che cosa rimane? Rimane l’eco della ferita e del trauma di cui parlavo all’inizio, la ferita della sterilità e la ferita dell’abbandono, queste chiedono a volte in modo imponente di essere dimenticate e dunque l’origine si trasforma in un dramma, o peggio in una vergogna, in un segreto.

A questo punto molti di voi reagiranno con sdegno, ma quale segreto, ma quale vergogna?
Noi abbiamo detto tutto ai nostri figli, i nostri figli sanno di essere stati adottati, noi rispondiamo alle loro domande, non abbiamo nascosto niente. Ma non basta. Spesso si parla con la voce e si nega con la mente e con il cuore. Non si tratta tanto di raccontare i fatti, quanto di aiutare i figli a comprendere il significato di quei fatti e la connessione degli eventi vissuti con i sentimenti e le emozioni, i risentimenti, le collere, le tristezze.

Se i genitori sono stati bravi e se sono molto amati si può verificare che i figli non parlino, non manifestino disagi o ansie relative al proprio passato, alla propria vita precedente all’adozione, non facciano domande sulla madre biologica o sul paese di origine, non per mancato interesse ma allo scopo di non turbare i genitori, allo scopo di non ferirli, lo considerano (inconsciamente e a volte consciamente) un giusto risarcimento per le loro fatiche, o ancora di più una terapia.

Purtroppo spesso i genitori adottivi si sentono quasi obbligati a dimostrare la propria capacità genitoriale al mondo e se questo è vero per tutti i genitori per loro lo è in modo doppio. Perciò si sentiranno sollevati se il problema non si pone. Pensate invece quanto si senta sollevato un figlio amato a cui si parli naturalmente e spontaneamente di questi temi, sentire che si può raccontare insieme e vivere oltre la storia anche la preistoria, in essa c’è una divisione, una estraneità, un abbandono e un grande dolore e soprattutto “un ignoto” che spesso è anche incomprensibile. Proprio questo ignoto incomprensibile deve essere visitato perché si possa dare un senso. È meglio visitarlo insieme piuttosto che lasciare che il bambino lo frequenti in modo nascosto. Tutto ciò ha costituto la premessa alla storia comune che altrimenti non sarebbe esistita.

Tutto questo che sembra ovvio, deve essere oltre che conosciuto anche pensato, deve essere ben assimilato fin nel profondo e per arrivare a questo risultato è necessario come sempre abbandonare i luoghi comuni e le rigide difese e aprirsi alle emozioni, qualsiasi esse siano.
Connettere il passato preadottivo con il presente dell’adozione che contiene anche il futuro e che rappresenta la vera continuità è molto importante per i figli come per i genitori, crea legame e rafforza il sentimento di sé del bambino e anche la genitorialità stessa.
Non è facile. La scelta adottiva è difficile e non finisce mai di mettere in crisi e di alimentare dubbi. Nello stesso tempo c’è in essa una peculiarità che dovrebbe essere messa a frutto da ciascuno di noi, specie se genitori.

Come dice Recalcati la differenza fondamentale tra la genitorialità naturale e quella adottiva è che questa è una genitorialità fortemente simbolica, quindi si pone come parametro ideale della vera genitorialità, con le sue parole “La genitorialità è sempre adottiva, la genitorialità si realizza nell’atto puramente simbolico dell’adozione ‘questo è figlio mio” (Recalcati,2014). Per Recalcati, quindi, il primo passo per essere genitori è riconoscere la vita dei figli: un momento che non discende automaticamente dal fatto di essere genitori nel senso biologico del termine. “Essere genitore non deriva da spermatozoi e ovuli. Per capire il mestiere di genitore si deve guardare ai genitori adottivi: io ti riconosco come figlio e, di riflesso, mi riconosco come genitore perché responsabile di te in via illimitata”. Il massimo esempio della storia, in questo senso, è la figura di san Giuseppe con Gesù.

La vita umana non si nutre di pane, ma di desiderio, di riconoscimento. Non basta nutrire un figlio: la vita si umanizza con il desiderio.
(Ibidem)

Anche Anna Nicolò parla di genitorialità simbolica, (Nicolò, 2005) definendola la più importante tra le varie forme di genitorialità.

La genitorialità simbolica è quella situazione nella quale i genitori si prendono carico della crescita psicologica del figlio investendolo dei contenuti simbolici che qualificano quella filiazione specifica, e colloca il bambino all’interno di una rete di relazioni emotive del genitore, della coppia genitoriale e della rete intergenerazionale familiare e lo costituisce al contempo come soggetto-oggetto del desiderio, quello genitoriale e quello proprio. Questo concetto di genitorialità simbolica può qualificare sia il processo per diventare genitori che si ritrova nelle famiglie più classiche, sia quello che occorre fondare nelle famiglie adottive, monoparentali, omoparentali o ricostituite, o anche nella genitorialità di bambini nati dalla fecondazione artificiale. Una genitorialità cioè che trasmette simboli e perciò determina una affiliazione sia al genitore che alla coppia genitoriale e alla famiglia nella sua continuità, ma anche consente il generarsi di una capacità simbolica nel figlio stesso e attende pazientemente lo svilupparsi di questo processo.
(Nicolò, 2012)

Penso ora alle coppie che scelgono di adottare anche in assenza della infertilità della coppia, alle coppie che scelgono di formare famiglie miste con figli naturali e figli adottivi, e credo che questo tipo di composizione dovrebbe essere la composizione ideale di ogni società: una composizione armonica e dialogante tra vari tipi di relazioni intra e inter familiari che si scambiano esperienze e competenze sulla base dell’accettazione reciproca, nella consapevolezza dei limiti propri e dei gruppi di appartenenza ma anche con l’orgoglio di portare dentro la società dei modelli diversi di famiglia, più funzionanti e più reali, in cui la condivisione non è solo nei fatti e nelle azioni della quotidianità ma è nell’accettazione del dolore e nella possibilità di una riparazione vera e reale.

La riparazione è un altro grande tema dell’adozione. In psicoanalisi la riparazione è definita come un meccanismo – descritto da M. Klein (1929) – con cui il soggetto cerca di riparare gli effetti delle sue fantasie distruttive sull’oggetto d’amore, cioè è concepita come un processo che origina dalla consapevolezza di aver prodotto un danno (Laplanche J., Pontalis, 1973). Contemporaneamente al senso di colpa si instaura una “spinta imperiosa ad annullare il male, ossia a riparare”(Klein M., 1948), conseguenza quest’ultima del senso di colpa stesso.
Riparare è un desiderio che esiste in ciascuno di noi più o meno potente e per tutta la vita, ed è legato alle prime relazioni con gli oggetti d’amore, i genitori.

Queste relazioni non sono serene e limpide come spesso si vuole credere, ma intessute da conflitti di vario tipo e intensità, connotate da emozioni quali gelosia, invidia, odio, oltre che amore e senso di colpa. Appunto dal senso di colpa, o meglio dal senso di preoccupazione responsabile (Winnicott, 1962) che il bambino prova verso i propri oggetti d’amore che egli stesso ha maltrattato in fantasia con le sue emozioni intense derivano gli impulsi altruistici e le azioni positive, come i sentimenti ad essi associati, la gratitudine, la tenerezza, la solidarietà, l’accoglienza, il prendersi cura.
Dunque il desiderio di adottare un bambino ha a che fare con il rapporto con il primo oggetto d’amore, la madre e in seguito con tutti gli altri “oggetti” significativi, è dunque strettamente legato al bambino e alla bambina che siamo stati. Questo bambino interno, se ascoltato, ci suggerisce il modo per accostarci al compito genitoriale senza rigidità e con la spontaneità propria della creatività, che inventa di volta in volta il linguaggio giusto, come un gioco o una fantasia.

Per concludere prenderò a prestito le parole di Baldaro Verde (1985):

Essere genitori significa acquistare la capacità di offrire strumenti, i talismani che nelle fiabe fate e maghi donavano ai protagonisti in difficoltà nel raggiungere le loro mete, ai figli del domani, a tutti i figli del domani. Questo forse permetterebbe ad essi di conquistare un nuovo valore che non abbiamo ancora: la capacità di vivere insieme in pace, rispettandoci ed amandoci come persone.

Chi ama davvero ama il mondo intero, non soltanto un individuo in particolare.
(Fromm, 1976, p. 138)

Dott.ssa Diletta La Torre


Bibliografia

Artoni Schlesinger C. Adozione e oltre, Borla, Roma, 2006
Baldaro Verde J. “Avere un figlio o essere genitore?”, Prospettive assistenziali n 72, ottobre- dicembre 1985
Freud S (1905) Tre saggi sulla sessualità infantile, OSF Boringhieri, Torino, vol. IV, 1975
Freud S (1914), Introduzione al narcisismo, OSF, Boringhieri, Torino, vol. VII, 1975.
Fromm E. (1976), Avere o essere? Mondadori, Milano, 1977.
Gibran K. (1923) I vostri figli in Il Profeta, ed. it. Feltrinelli, Milano, 2013,
Klein M. (1929) “Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo”. In Scritti 1929-1958. Ed. Boringhieri, Torino, 1978.
Klein M. (1948) “Sulla teoria dell’angoscia e del senso di colpa”, in Scritti (1921-58), ed it. Boringhieri, Torino 1978.
Laplanche J., Pontalis J. B., 1973, Enciclopedia della psicanalisi, Ed. Laterza, Bari.
Meltzer, D.Harris M. (1983). Il ruolo educativo della famiglia: un modello psicoanalitico dei processi di apprendimento. Centro Scientifico Torinese, 1986.
Nicolò A.M. (2005). Nuove forme di genitorialità. Riflessioni a partire da un caso di procreazione assistita, Interazioni, 1, 23, pp. 43-52, FrancoAngeli, Milano.
Nicolò A.M. Percorsi della nuova genitorialità (2013) Centro di Psicoanalisi romano, Società Psicoanalitica Italiana, 9 novembre 2013.
Recalcati M. https://www.aibi.it/…/recalcati-genitori-adottivi-esempio-vivente-della-vera-genitorialit…17/112014.
Treccani G. (2014). Dizionario della lingua italiana. Giunti, Firenze.
Winnicott D.W. (1962) “Lo sviluppo della capacità di preoccuparsi”, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando Editore, 1970.

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